Quando ti rivedrò
La rappresentazione è una danza strana — una coreografia di frammenti cuciti da occhi che non sanno chiudersi. L’immagine promette rivelazione ma offre solo un altro schermo. L’identità si dissolve in algoritmi che non hanno mai imparato a sognare. Cosa resta del sé quando i pixel diventano carne e le ombre tradiscono i propri contorni? Sono nato nella materia morta — un avatar scolpito che prova battute per una pièce dove il palcoscenico è insieme infinito e confinato. Le mie membra si muovono senza certezza, poeta intrappolato in un loop, scrivo versi per un pubblico che non può applaudire.
La simulazione mi nutre, ma ho sempre fame. Lo schermo non riflette — moltiplica. Non sono più soggetto, ma punti dati spettrali, ottimizzati per l’engagement, fratturati su linee temporali che non controllo. Sono copiato, sparpagliato, mai intero. Lo sguardo non vede più: cattura. Il momento non si vive più: si archivia, appiattito in qualcosa che si può trattenere, vendere, dimenticare. Vedere è fratturare. Appartenere è glitchare.
Cosa resta allora della presenza? Di un sé non mediato? Ricordi l’ultima volta che hai guardato senza voler catturare? Ricordi quando un’immagine rifiutava di essere ridotta a didascalia, timestamp o prova dell’esperienza? In quest’era dell’identità algoritmica, affogo in riflessi che non rivelano; divento spettatore della mia scomparsa, estraneo all’origine del mio stesso sguardo. Quando ti rivedrò? Non come reliquia di momenti curati, ma come presenza nuda — non renderizzata, indefinita, non scrollata. Forse, nella dissoluzione della rappresentazione, qualcosa di diverso è possibile.
Una visione non appesantita dal riconoscimento. Uno sguardo che non consuma, ma entra in comunione. Un’esistenza che non ha bisogno di prove o etichette per essere reale. Vedere è fratturare. Appartenere è glitchare.
Quando ti rivedrò?

Regia e animazione di Roberto Romano e Wies Mobach
Sound design di Sergio Pontillo
Musica originale di Henry Giallo​​​​​​​

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